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Questo l'articolo intero di Repubblica del 28 gennaio 2009 tutto virgolettato....
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'Io, il re dei cavalli truccati'
«Ho truccato corse di cavalli per dodici anni, dal 1991 al 2003. Novanta corse, almeno. L' ho fatto per conto della malavita di Taranto legata alla ' ndrangheta, per i casalesi che giocano all' ippodromo di Aversa. L' ho fatto per me stesso. Capisco di cavalli, soprattutto di guidatori e scuderie. La prima volta che ho provato a costruire un risultato, al Paolo VI di Taranto, ho guadagnato un miliardo di lire. Scommettere è più di un vizio, è un' adrenalina che pompa a bassa intensità durante la settimana e la domenica esplode. Scommettere sulla vittoria sicura, poi, è un lavoro duro che ti fa ricco». «Ho smesso quando un boss di Taranto mi chiamò sul cellulare, aveva perso soldi in una combine non riuscita. "Mi devi dire chi ha tradito o ammazzo tua madre e tuo padre". Era l' aprile del 2003. Contattai prima la procura di Milano e poi quella di Napoli. Raccontai tutto quello che avevo fatto e avevo visto. Sono diventato un collaboratore di giustizia. Ero cresciuto insieme all' ippica, non volevo più essere complice della sua distruzione. Le gare negli ippodromi, oggi, sono truccate. Almeno una a convegno. E il mio sport in mano ai banditi sta morendo». Il pentito dell' ippica ha 42 anni, un diploma da ragioniere e un Nokia dorato. Sotto protezione ha già cambiato tre residenze. Sempre al Nord, lontano dalle sue terre pericolose. «Sono cresciuto a ridosso dell' ippodromo di Taranto e nel 1990 iniziai a lavorare per un allevamento. Trafficavo con antidolorifici per cavalli e regalavo medicine e siringhe alla scuderia del clan Cianciaruso». è un' area difficile, quella del Paolo VI: operai Italsider, disoccupati. Una diffusione capillare della criminalità. «I Cianciaruso nel ' 91 iniziarono a truccare corse. Erano grossolani, minacciavano e basta: "Tu devi arrivare primo, tu secondo, tu terzo" e in pista vedevi le comiche, i cavalli si incastravano. Uno dei loro scommettitori era un giornalista sportivo locale, lo picchiarono perché faceva la cresta sui soldi raccolti». Il ragioniere scopre i volumi d' affari dell' ippodromo e decide di aprire un picchetto per le scommesse. «Fu il clan ad avvicinarmi: "Dobbiamo far vincere i nostri cavalli". Erano lentissimi. Ricordo un giorno, un giudice espose il giallo contro "Dervis Ve" e Antonio Cianciaruso andò sulla torretta pistola in pugno urlando a Donato Carelli, proprietario del Paolo VI: "Quello che ti proteggeva è morto". Alludeva ad Antonio Modeo, il Messicano, ucciso per ordine dei fratelli. Carelli, già presidente del Taranto calcio, oggi responsabile dell' ippica per Forza Italia, è sempre stato a mezza strada tra la necessità di far sopravvivere l' ippodromo e quella di avere gare regolari. Ho raccontato i dettagli al magistrato. Fu Carelli, va detto, a far aprire l' inchiesta che tolse dalle scuderie i Cianciaruso. Pagò quella denuncia con due colpi di pistola alle gambe». Per cinque anni "il ragioniere" ruba corsette da 100 mila lire e nel marzo ' 96 gli passa davanti l' occasione. «Un socio mi segnalò un colpo da due miliardi fatto all' ippodromo di Firenze. Contattai Tonino Diodato, affarista di zona: mi servivano 80 milioni di lire per corrompere i fantini. Dieci su diciotto. Il favorito, "il Principe", voleva contanti: 20 milioni a fine corsa. Correva su Pinks Black. Un driver avvertì l' ippodromo: "Mi hanno avvicinato due sconosciuti per comprarmi". Carelli verbalizzò, ma non fermò la gara. E il mercoledì funzionò tutto come un orologio: i primi tre piazzati erano nostri. Incassammo 849 milioni, 727 mila e 800 lire. Pagai fantini e mandanti, 150 milioni erano per me. La notizia era partita: avevo fatto vincere un miliardo a zio Tonino». Il ragioniere, per tutti, diventa il professionista della corsa truccata. «Mi sentivo forte, puntai sulle Tris. Metodo toscano: corruzione e cavalli ostacolati. Sessanta milioni di giocate, vinsi ancora». Il faccendiere Diodato va in galera, il ragioniere sale di grado. Vuole incontrarlo uno dei due fratelli Babuscio, mala di Taranto saldata alla camorra. «Si presentò con uno spiderino e un paio di ceffi. Avrebbero dovuto rapirmi per estorcermi il segreto delle combine, ma io collaboravo, non c' era bisogno di violenza. Nicola Babuscio tirò fuori un pacco con 20 milioni di lire: decidemmo di toccare una corsa a Taranto. Prima di scommettere mi portarono a Grazianise, provincia di Caserta. Entrammo in un' azienda di pompe funebri, mi fecero sedere su una bara. Ecco, il fratello latitante. Si fidò. Giocammo una cavalla vincente pagandone cinque a perdere: 20 milioni impiegati, solo otto vinti. Ma capirono che il giro c' era. "Quando facciamo una cosa più grossa?". La Tris, qui ad Aversa». L' ippodromo Cirigliano di Aversa è un gruviera per truccatori della camorra: il ragioniere entra in quel mondo senza timori. «Comandavano i casalesi e io presi confidenza con Mario Tavoletta, il killer. Entrai nelle loro case di Villa Literno: tutte uguali, diroccate fuori, i marmi all' interno, i prati all' inglese. Nei prati sotterravano bidoni pieni di soldi: li ho visti. Mario Tavoletta quando ti parlava ti offriva la seggiola e presto volle farmi partecipe del suo stile di vita: champagne e prostitute. Decidemmo di spostare la giocata ancora su Taranto, ma la corsa del 19 novembre 1996 andò male. Avevamo dato 60 milioni di lire a un solo driver, Nicola Gallucci, e lui non li aveva distribuiti. Pensava di ostacolare Run Run da solo, ma il cavallo si isolò e vinse sotto la pioggia. I Babuscio e il loro socio persero 400 milioni, fu la fine del mondo. Sequestrarono Gallucci, lo portarono in una villa, lo legarono a un albero, lo massacrarono. I 60 milioni erano nel caminetto spento. I Tavoletta proposero di ucciderlo, riuscimmo a mediare». Il 23 settembre del 1997, di ritorno da una Tris ad Aversa, Tonino Tavoletta viene ammazzato, l' autista ferito. Poi sarà ucciso anche Mario, suo cugino. Un gruppo di fuoco degli Schiavone-Bidognetti, diranno le indagini. «I Tavoletta giocavano in proprio e al clan davano le briciole. Antonio aveva fatto vincite secche da 800 milioni. Nel Bresciano controllava tre agenzie. I casalesi sono entrati con prepotenza nell' ippica perché garantisce guadagni forti con pochi rischi e una certezza di riciclaggio del denaro della droga». Il ragioniere, quando serve, riesce a fare da solo il lavoro di una squadra di scommettitori. «Cinque città in un giorno, in autostrada senza sosta. Giocavo schedine con pennarelli diversi, scrivevo con entrambe le mani. Scommesse basse, 50 euro. I controlli dell' Unire non intercettavano nulla. Poi mi buttai sulle corse dei gentlemen, i dilettanti: un commerciante d' auto pretese una tangente di 30 milioni. E in un delirio di onnipotenza truccai la schedina Totip, 1998 e 2002». Quasi due miliardi di lire l' incasso, «fu un' opera d' arte, una Gioconda». Conosce Alfonso Cesarano, chiede il pentito. «è uomo dei Nuvoletta, un pluriradiato. Aveva centinaia di cavalli intestati e li faceva correre uno per l' altro. Il suo veterinario toglieva il microchip di riconoscimento e lo attaccava con i preservativi alla criniera del cavallo. Lo incontrai all' uscita di Candela, trenta chilometri da Foggia. In un sacchettino di Cartier aveva 50 milioni in tagli da 10 mila lire. Con lui feci la mia ultima toccata». I casalesi negli ippodromi di Aversa, Pontecagnano e Garigliano, i tarantini della ' ndrangheta al Paolo VI, i calabresi e i foggiani a Milano, la mafia a Palermo. «Sono pochi i grandi guidatori che si sono sfilati da questo sistema, l' ippica è marcia alle radici. Nell' Unire, l' ente che la gestisce, alcuni funzionari scommettevano dopo la chiusura delle casse: avevano trovato il modo di fermare l' orologio». |